Di
Patrizia Solari
Adam
nacque a Igolomia, nel sud della Polonia, il 20 agosto del 1845. I suoi genitori,
Adalberto, funzionario di dogana, e Giuseppina Borzyslawska, avranno, dopo
di lui, ancora altri tre figli: due maschi, Stanislao e Mariano, e una femmina,
Edvige.
L’infanzia di Adam scorse veloce. Non si può dire che sia passata alla storia una sua qualità particolare che lo distingua dagli altri bambini della stessa età. Ma, a sei anni, il piccolo Chmielowski si ammala seriamente. Mamma Giuseppina lo porta in pellegrinaggio al santuario di Mogila, dove lo consacra a Gesù Cristo, vestendolo col saio dei francescani. La malattia scompare: è qualcosa di più di un segno premonitore del destino.
Nel
1853 muore Adalberto Chmielowski. La tubercolosi lo aveva colpito anni prima.
Adalberto era stato costretto a lasciare il suo lavoro in dogana e a trasferirsi
in una tenuta agricola che aveva acquistato presso la cittadina di Czernice.
La
signora Giuseppina, rimasta vedova con quattro bambini (Adam, il maggiore
aveva 8 anni), vendette la terra, ricavando quel che poteva e si trasferì
a Varsavia.
A
dieci anni, Adam con una borsa di studio spettante ai figli degli ex impiegati
dello Stato fu mandato a Pietroburgo, al prestigioso collegio dei cadetti.
Era uno studente modello e ricevette un’onoreficenza dalle mani dello zar
Alessandro.
Nel
1859 morì improvvisamente anche la mamma Giuseppina, e i quattro fratelli
Chmielowski furono affidati alle cure di un’anziana zia, buona e molto pia.
Nel
1862 Adam si iscrisse alla scuola di Agraria dell’istituto politecnico di
Varsavia. Secondo i suoi piani, avrebbe dovuto acquisire tanta conoscenza
in materia da poter gestire una fattoria abbastanza grande, da garantire una
vita agiata per tutta la famiglia. Ma, nel gennaio 1863, scopertine/coppiò in Polonia
l’insurrezione contro il dominatore russo e Adam, come dirà più tardi, si
infiammò di ardore giovanile e non seppe resistere alla chiamata della patria.
L’incidente,
la prigionia
Il
30 settembre del 1863, durante una battaglia nei pressi del villaggio di Melchov,
mentre Adam era in attesa di ordini, una bomba a mano scopertine/coppiò tra le gambe
del suo cavallo, sventrandolo e colpendo a un piede il cavaliere che cadde
svenuto. I compagni d’arme raccolsero il ferito e lo portarono in una capanna
dove fu preso prigioniero dai russi. La scheggia aveva spappolato le ossa
e la ferita si era infettata. Il medico russo dovette amputare la gamba poco
sotto il ginocchio, con mezzi di fortuna, in una casupola di campagna e senza
anestesia. “Per resistere al dolore”, racconterà poi Adam “chiesi un sigaro
che finii per stritolare sotto i denti. Mi ero imposto di non gridare e non
emisi neppure un lamento.”
Dopo
due mesi, Chmielowski riuscì a fuggire dal campo di prigionia, nascosto dentro
una bara che doveva trasportare un prigioniero morto, e ritornò tra le file
degli insorti.
Nel
maggio del 1864, grazie a una colletta organizzata dai suoi ex compagni d’arme,
si recò a Parigi, dove si fece curare la gamba e applicare una protesi, modernissima
per quei tempi, composta da un pesante meccanismo di ferro e di legno, che
gli consentiva di camminare appoggiandosi a un bastone.
In
Francia, Chmielowski fu folgorato dalla grande passione della sua vita: la
pittura. Cominciò a frequentare la scuola di Belle Arti di Batignolle. Nel
luglio del 1865 tornò a Varsavia e proseguì gli studi presso la scuola di
disegno. Dopo aver ottenuto il diploma, nel 1868, tornò a Parigi per perfezionarsi
nel laboratorio di Karl Gotz. Poi si trasferì a Monaco, dove rimase fino al
1874.
Lo
stile di Chmielowski, simile a quello di Cézanne, ma acceso da un tormento
romantico, era molto apprezzato dai mercanti d’arte del tempo. Il lavoro non
gli mancava mai, anzi, il più delle volte Adam non riusciva a dipingere tanti
quadri quanti gliene avevano ordinati. Eppure, Adam visse la sua breve permanenza
nell’élite culturale polacca in modo tormentato e traumatico. Ora che aveva
realizzato il suo sogno di potersi chiamare pittore, l’arte gli appariva come
un’attività vacua e senza vero senso. Gli davano noia i ricchi signori che
frequentavano il suo studio, le loro case traboccanti di ricchezza e quei
discorsi inutili, tanto distanti dalla vita dei vicoli di Varsavia. Adam cominciò
a dedicare del tempo ai barboni che incontrava per la via. Con grande scandalo,
si fece sfrattare tre volte, da altrettanti appartamenti borghesi: si portava
a casa gli ubriachi e i vecchi senzatetto, scatenando le proteste dei suoi
coinquilini.
Un
giorno, come racconta padre Giorgio Mrowczynski, il postulatore della Chiesa
polacca presso il Vaticano, Adam Chmielowskisi si imbatté in un gruppo di
mendicanti che si riscaldavano alla meglio nel cortile di una casa abbandonata.
Si avvicinò per un naturale istinto di carità, ma fu cacciato via. I suoi
abiti ricchi e i suoi modi da signore furono visti da quei derelitti con un
misto di sospetto e di disprezzo. Adam ne fu profondamente scosso. Capì che
non si può veramente aiutare il prossimo bisognoso di carità, se non si fa
uno sforzo per abassarsi al suo livello. Per dedicarsi ai poveri, doveva diventare
povero egli stesso.
Nel
1880, l’affermato pittore decise di consacrare la sua vita a Dio. Quando varcò
il portone del collegio dei Gesuiti di Tarnopol, il 24 settembre di quello
stesso anno, Chmielowski aveva 35 anni. Il percorso della sua esistenza sembrava
segnato, ma accadde un imprevisto: la dura disciplina formale, il tipo di
esercizi spirituali imposti dal noviziato nella Congregazione del Gesù, provocarono
ad Adam una terribile scossa nervosa. Dopo appena sei mesi, il 5 aprile 1881,
fu costretto a svestire la tonaca “ob perturbatam rationem”, cioè a causa
di un momentaneo attacco di follia. Mentre era in bagno, il novizio trovò
un mozzicone di sigaretta che aspirò avidamente, infrangendo le regole dell’Ordine
che vietavano tassativamente il fumo. Questa lieve trasgressione gli provocò
una violenta crisi di sconforto: si sentiva indegno e incapace di servire
il Signore.
Adam
finì in cura all’Istituto regionale per malati di mente di Kulparow, presso
Leopoli, dove rimase fino al 22 gennaio 1882. Quando fu dimesso era l’ombra
di se stesso. Tutte le sue convinzioni erano finite in frantumi. Si sentiva
come un uomo invaso da una vocazione che non riusciva ad esprimere. Anche
l’arte gli provocava nient’altro che tormenti. Dipingeva e distruggeva i suoi
quadri. Tutto gli appariva senza senso e in seguito raccontò: “In quei tempi
non avevo perduto la ragione, soltanto si era impadronita di me la malinconia”,
uno stato d’animo oscuro, che pareva doverlo risucchiare per sempre. Ma, all’improvviso,
accadde un miracolo.
Adam
si trovava ospite di suo fratello Stanislao, nella cittadina di Kudrynce.
Passava il suo tempo in disparte, seduto su una pietra del giardino, a contemplare
l’infinito. Un giorno, il parroco, monsignor Pogorzeski, si recò a trovare
Stanislao e si mise a conversare ad alta voce, per essere udito dal malato,
sul tema della Divina Provvidenza. Quelle parole risvegliarono Adam dal suo
torpore. Quello stesso giorno si recò dal parroco a confessarsi e ne uscì
completamente trasformato. Da quel giorno la vita non gli fece più paura.
Nel
1884 Adam ritorna a Cracovia e si stabilisce presso il convento dei frati
Cappuccini. Le sue giornate sono scandite dall’impegno continuo a fianco dei
poveri che trova sulla strada: vende i quadri che dipinge di notte e col ricavato
compra cibo per gli affamati, vestiti per gli ignudi e medicine per i malati.
Il suo attivismo è straordinario e inarrestabile: nel povero vede Cristo bisognoso
che chiede aiuto.
Ma
non è ancora arrivato agli ultimi. Un giorno capita per caso in un posto di
“riscaldamento pubblico”, una specie di dormitorio dove gli indigenti trovavano
riparo dal gelo invernale. Rimane sconvolto da quella situazione che definirà
“l’inferno dei vivi”. Seppe all’istante quale sarebbe stata, da lì in avanti,
la sua vocazione.
Per prima cosa si rivolse alla municipalità di
Cracovia, per ottenere il permesso di dirigere quei posti di raccolta dei
derelitti. Sembrava che gli assessori non sapessero decidersi. Finché prese
la parola un rappresentante di religione ebraica. “Veramente non vi è ragione
di riflettere a lungo”, disse. “Si dovrebbe soltanto, con riconoscenza, baciare
le mani di questo benefattore e dirgli: ’Sì, la preghiamo di farlo”.
Adam
percorreva le vie di Cracovia con un carretto e un campanello, raccogliendo
le offerte dei cittadini. Alla fine del viaggio il carretto era sempre troppo
pieno e pesante. Perciò dovette rivolgersi ad alcuni volenterosi, che costituirono
il primo nucleo della Congregazione.
Il
25 agosto del 1888, Chmielowski prese i voti terziari dalle mani del cardinale
Dunajewski. Il suo nome divenne Fratel Alberto.
Il
giorno del Corpus Domini del 1889, la Congregazione Albertina si arricchì
del ramo femminile. Vedendo Fratel Alberto e i suoi frati in processione per
le vie della città, due giovani, Anna Lubanska e Maria Silukowska, si presentarono
offrendogli colaborazione e aiuto. Il 15 gennaio 1891, le prime sette suore
Albertine ricevettero il saio dal cardinale, nella cappella del palazzo vescovile.
Secondo
le regole dettate da Fratel Alberto, il fine della sua Congregazione era quello
di assistere i più poveri tra i poveri; i fratelli si dovevano occupare degli
uomini, le sorelle delle donne e dei bambini. E per raggiungere questo fine,
gli Albertini si imposero la pratica della più estrema povertà, proprio per
non differenziarsi in alcun modo dalla povera gente.
In
breve tempo, la figura di Fratel Alberto divenne famosa in Cracovia e nel
resto della Polonia. I frati e le suore raggiunsero rapidamente il numero
di cento e le case di accoglienza per i poveri, rette dalla Congregazione
Albertina, si diffusero per tutto il Paese. Fratel Alberto, già da vivo, era
considerato un santo.
Quando
morì, nel 1916 per un tumore allo stomaco, il suo funerale fu un vero trionfo
popolare, al quale parteciparono tutti i poveri che aveva assistito e beneficiato,
la gente di Cracovia e le autorità civili e religiose al gran completo.
Quattro
anni più tardi nacque a Cracovia Karol Wojtyla che, giovane drammaturgo, scrisse
un’opera teatrale dedicata alla vita di Fratel Alberto. Tra la sua nomina
a vescovo, nel 1958, e la sua elezione al papato, nel 1978, Giovanni Paolo
II dedicò a Fratel Alberto più di quaranta omelie, discorsi e altri interventi
e celebrò numerose messe per la sua beatificazione.
Dopo
aver beatificato Fratel Alberto insieme al carmelitano Kalinowski nel 1983
a Cracovia, nel 1989, in San Pietro dichiarò santo il pittore dei poveri,
vivendo, come egli stesso confessò, una delle gioie più grandi della sua vita.
1)
Le notizie sono tratte da “Nomi di OGGI”, n. 1 del 27 marzo 1998
Il
regista polacco Krzysztof Zanussi ha tratto dal dramma “Fratello del nostro
Dio”, scritto da Karol Wojtyla negli
anni Quaranta, un film dallo stesso titolo, i cui dialoghi sono stati firmati
dal Papa stesso.
Dice
Zanussi: “Questa pièce, scritta negli anni Quaranta per il teatro e tuttora
attualissima, è un lavoro importante, dal contenuto raro: un severo richiamo
al radicalismo cristiano, in un’epoca in cui ormai ogni cosa è relativa. La
vicenda è esemplare: Adam Chmielowski, pur baciato dal successo, è pieno di
nevrosi mentre, dopo aver dato un taglio al passato, acquista serenità, si
ritrova uomo ’integrale’. Malgrado non gli manchino momenti duri: la ribellione
dei suoi frati, il fatto che il movimento non dia nessun risultato visibile.
Ecco, dobbiamo tutti riflettere su questo: se siamo ’centrati’ superiamo le
bufere; se siamo squilibrati, diventa intollerabile pure la vita comoda.”
Zanussi
è amico di Giovanni Paolo II da più di un trentennio e i loro rapporti si
sono particolarmente intensificati dal 1980, quando il regista realizzò il
film “Da un paese lontano”, che racconta la biografia del Papa.
Il
film “Fratello del nostro Dio” è distribuito anche in VHS